“E` la musica, la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa
che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire
che ti urla di cambiare
di mollare le menate
e di metterti a lottare”

questo è quello che mi ha ispirato subito Roberto Sarno, dopo aver letto sue affermazioni, dopo aver letto alcune sue considerazioni e sue risposte. Questo rif della mitica ‘Musica ribelle’ di Eugenio Finardi quasi che mi sembra gli calzi a pennello.

Di musica indipendente ormai ne mastico parecchia, da quattro anni conduco un appuntamento settimanale radiofonico dedicato ai musicisti indipendenti. Il progetto si chiama ‘Mei Web Radio’, ma ancor prima ne ho seguiti un’infinità e garantisco .grande professionalità e nella maggior parte dei casi una qualità . che meriterebbe ben altri spazi o per lo meno molta più ‘luce’ di quanta non riescano a ritagliarsene.

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E’ per questo che ho scelto di parlarne attraverso l’esperienza di Roberto Sarno, classe ’67, nato a Roma, ma vissuto ad Arezzo, in Toscana. Chitarrista sin dall’adolescenza ed è proprio da qui che sono partita

Chitarrista per caso o per scelta?      Da bambino facevo finta di suonare una racchetta da tennis come se fosse una chitarra e mi muovevo al suono dei dischi sparati a tutto volume in camera mia. Ma quando approcciai un corso di chitarra classica pomeridiano alle scuole medie abbandonai dopo poco dicendomi che non avrebbe mai fatto per me.  Qualche anno più tardi, quando avevo 13 anni, diventai amico di Attilio (il futuro cantante dei DIVE), lui suonava la chitarra elettrica già da un po’ e io ne rimasi folgorato. È stato allora che ho cominciato. Credo che il caso sia sempre fondamentale nella vita e che siano i momenti contingenti a definire le nostre scelte. Amo ancora la chitarra, anche se oggi lo strumento che più mi affascina è la voce”

Il tuo percorso è stato cadenzato da diverse fasi, formazioni e anche sonorità. In questo caso hai cambiato per una sopraggiunta necessità artistica, una tua voglia di esplorare altre strade o perché ogni fase era giunta ad esaurimento?      “Non credo di essere mai arrivato ad esaurimento, piuttosto di non avere mai trovato una formula definitiva. Il progetto dei DIVE terminò perché eravamo troppo giovani; ho sempre creduto che se avessimo avuto un manager adeguato probabilmente saremmo ancora insieme e avremmo pubblicato un mucchio di dischi. Ogni tentativo successivo è stato una ricerca vana e forse solo oggi ritengo di avere identificato di nuovo una mia personalità artistica”

La vostra musica, la tua, è marcatamente rock… io sento molto l’atmosfera anni ’70. Mi sbaglio? Quando il pentagramma era pieno di strumenti o sembrava che tutti quelli presenti suonassero insieme alla stessa tonalità riempiendo lo stesso spazio.    “L’istinto mi ha portato a consolidare alcuni ambiti cerebrali che avevo bisogno di colmare, tuttavia credo che ciò che ho pubblicato non mi rappresenti ancora in maniera precisa. Sono già altrove, sento la necessità di andare oltre, di sperimentare di più. È come se finora fossi stato ancora un po’ condizionato dall’ambiente circostante”

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Del primo gruppo cosa ricordi? I Dive?    “Un gruppo di amici, un sogno che si stava avverando e che poi è svanito come in un crudele e malinconico risveglio”

Cosa ha caratterizzato il secondo, i Baby Lemonade?  “All’epoca suonavo il basso, mi aveva coinvolto nel progetto Simone, l’ex drummer dei Dive. È stato un periodo divertente, se pur breve”

E il terzo, i Quigoh?  “I Quigoh hanno caratterizzato un passaggio molto importante del mio percorso, ovvero la ripresa dopo gli anni in cui mi ero fermato. Ho trascorso molto tempo dedicandomi ad altro; un lavoro e una famiglia numerosa. Il progetto Quigoh rappresenta l’esplosione, come nel caso di un vulcano attivo che rimane silente per molto tempo e poi erompe inesorabilmente. Ho cominciato a scrivere canzoni e, dopo la prima pubblicazione, a cantarle in italiano. Mi sono avvicinato sempre di più alla ricerca di uno stile personale, che mi caratterizzasse, che potesse rappresentare la mia più intima identità artistica.Tuttavia questo percorso non si poteva completare se non abbandonando la band, chiudendo quel pezzo della mia storia. Per scavare più profondamente nella mia personalità ho avuto bisogno di uscire maggiormente allo scoperto, con la mia faccia e col mio nome in copertina. Ecco perché Endorfina è l’esito di un progetto sul quale avevo cominciato a lavorare con la band e poi ho concluso e pubblicato da solo”

Ci sono due importanti step in questo percorso (iniziato ufficialmente in quale anno?): uno è l’incontro con Cesare Petricich dei Negrita e il secondo quando XL di Repubblica pubblica una compilation inserendo anche il bano ‘I colori che tornano’ dei Quigoh. Cosa è significato per te?    “Ho messo in piedi i Quigoh nel 2007 ed è facile per me ricordarlo perché è stato proprio quando ho varcato la soglia dei quarant’anni che ho dovuto assolvere la necessità di immergermi di nuovo nella mia musica. Cesare è una persona cara che conosco dall’epoca del liceo, dalle prime chitarre, dal confronto delle band di ragazzini che provavano la domenica pomeriggio in cantina. Rincontrarlo ha significato davvero molto per me: nonostante i percorsi di vita completamente diversi e la sua celebrità, mi ha incoraggiato, consigliato e aiutato. È grazie a Cesare se l’album Le Tue Parole suona come un disco vero e la pubblicazione nella compilation di Repubblica ha rappresentato un riconoscimento concreto di un lavoro in studio durato circa tre anni, in parte anche con lui”

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Quando esci da ogni gruppo, ti riappropri del tuo nome Roberto Sarno e porti avanti la tua filosofia musicale?   “Beh, di fatto è solo con Endorfina che mi sono appropriato del mio nome e ho preso coscienza della mia filosofia musicale. Per questo mi sento ancora all’inizio”

Qual è oggi il tuo sound e perché?  “Al momento sono molto attratto sia da sonorità acustiche che elettrificate, anche se miscelate con l’elettronica. Tanto per citare un paio di esempi: Radiohead e Bon Iver. Uno da una parte dell’oceano e uno da quella oppostaPer il prossimo progetto discografico ho accumulato nel il mio studio un bel po’ di strumentazione che va proprio in questa direzione e attualmente con il mio amico e musicista collaboratore Marco Mafucci stiamo provando a estremizzare quello che abbiamo nella testa, cercando di andare oltre i soliti confini mentali sia nello sviluppo dei nuovi pezzi da registrare in studio, sia negli arrangiamenti dal vivo. So bene che spesso sono le cose semplici a fare venire la pelle d’oca, ma nella musica sono un po’ stanco di sentire le solite sonorità iperblasonate”

Però da ciò che mi hai scritto sei profondamente deluso dal contesto. Raccontami! “Si, in effetti sono deluso dall’appiattimento del contesto artistico che viviamo attualmente in Italia. Sembra che l’appartenenza ad una cerchia di tendenza valga più degli stessi contenuti.Naturalmente non ho la presunzione di parlare di me, penso a molti artisti sotterranei che non vengono valorizzati, emarginati dal loro stesso essere. Oggi sembra che funzioni solo chi è riconducibile ad un cliché codificato, ad esempio i rocker poppeggianti, i rapper “de noantri” o i cantautori di basso stile, spesso non hanno niente di buono eppure la gente li segue. È unicamente appartenenza al sistema!”

Dove trovi maggiori resistenze nel farti conoscere a livelli maggiori?  “Vorrei avere più spazio nell’ambito del live, oggi i pochi locali rimasti che offrono spazi alla musica aprono solo a quei cliché di cui parlavo prima, c’è poca attitudine alla ricerca e alla curiosità”

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Sei consapevole che il settore musicale è certamente il più saturo? E per questo le difficoltà nell’emergere si moltiplicano a vista d’occhio? “Certo, oltre all’appiattimento culturale che dicevamo, c’è l’inflazione delle proposte a determinare un’ulteriore irrigidimento dei flussi. Oggi, nell’epoca dei computer e del web, tutti hanno la l’opportunità di registrare e pubblicare la propria musica. La moltitudine di cose che ci sono in giro rimuove la voglia dell’ascoltatore medio di andare a ricercare il nuovo, si lascia condizionare dall’offerta e filtra in base all’appartenenza sociale”

 Qual è il tuo pensiero in merito?  “È un percorso formativo molto impegnativo, credo che si dovrebbe partire dalla formazione e dagli stimoli che offriamo alle nuove generazioni. Nel mio piccolo è quello che cerco di fare con i miei figli, cerco di educarli a diventare critici, a non avere paura delle diversità, di navigare nel sistema, ma di avere delle idee alternative”

Cosa vorresti? E quali sono oggi i tuoi obbiettivi?    “Vorrei avere più tempo da dedicare alla musica e al mio progetto artistico. Il mio obiettivo più ambizioso è di trovare una dimensione personale che possa essere riconosciuta. Sarei felice se sapessi di avere lasciato qualcosa di buono agli altri”

Si vive con la musica? Tu vivi con la tua o è necessario compensare con un altro impiego? “Credo che in Italia oggi si possa vivere con la musica solo in pochi casi: ad esempio se hai affermato la tua carriera prima dell’ondata negativa di questi ultimi vent’anni, se ti concedi al sistema o se hai voglia di sopravvivere con estrema difficoltà, rinunciando a qualsiasi progetto di vita a medio-lungo termine.  Personalmente ho scelto, se pur con una certa sofferenza interiore verso questa mia grande passione, di avere un altro impiego che mi desse l’opportunità di crescere con la donna che amo e di avere una famiglia numerosa; quattro figli da mantenere sono una grande fortuna, ma sono anche molto impegnativi. Così facendo mi trovo ad essere eternamente insoddisfatto verso l’esito economico della mia musica, anche se mi sento sempre libero di andare dove mi porta il cuore”

A cosa ti ispiri?  “Prevalentemente sono le esperienze di vita a darmi l’ispirazione, a volte mi piace andare a fondo nel mio stato d’animo, altre provo a immaginare quello degli altri, specialmente delle persone che conosco meglio.Quello che mi circonda propone sempre una valanga di spunti, ma la mia ambizione per il futuro è di imparare ad usare con più pungenza le parole; mi piacerebbe saper descrivere persone e storie con maggiore distacco critico e personale, vorrei parlare di più dell’ambiente politico, culturale e sociale”

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Certo che oggi è molto costoso proporsi anche perché oltre al brano è quasi d’obbligo produrre il video clip. Tu come stabilisci quale fare e quando farlo? “È vero, gli uffici stampa chiedono molto anche se spesso sono inaffidabili e non danno garanzie. Nella produzione dei video mi aiuta il mio amico non professionista Andrea Baldesi. Sono fortunato a collaborare con lui, poiché crede nel mio progetto mettendo a disposizione il suo tempo e le sua attitudine. Certo che avere più risorse, strumentazione e magari anche una tecnica più evoluta faciliterebbero il risultato, ma il nostro approccio indie garantisce un forte stimolo dal punto di vista delle idee. Il tema qui è che non riesco a spiegarmi la diffusione di certi videoclip, non necessariamente legati ai personaggi o a un brano particolarmente azzeccato, mi sembra che nell’ambito dei social (per primo YouTube, ma anche Facebook) i virus si propaghino in maniera incondizionata e incomprensibile”

Quali sono state le critiche che più ti sono piaciute? E cosa invece nel corso di questi anni ti è stato criticato troppo, secondo te?  “Le critiche che mi piacciono sono quelle che nel bene o nel male vanno al cuore del mio essere come artista, compositore e autore, sono quelle che mi identificano come tale e che mi aiutano ad evolvere. Non sopporto i pregiudizi, le idee spesso comuni di chi crede che solo se non fai altro nella vita sei un artista, anche se non vali niente, mentre se hai un lavoro e una famiglia sei un musicista della domenica”

Quale palco ti piacerebbe calcare? E con quali artisti ti piacerebbe collaborare? “Qualsiasi palco dove ci sia gente disposta a condividere, curiosa e con la voglia di ascoltare davvero. Mi piacerebbe collaborare con un mucchio di personaggi: tra i musicisti sceglierei alcuni tra i songwriter che preferisco, come Justin Vernon e Thom Yorke, oppure Damon Albarn. Altrimenti nell’ambito del cinema, ad esempio, troverei interessante Paolo Sorrentino. Ma perché no con uno scrittore, un pittore, un fotografo o addirittura con Moreno Cedroni”

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