Sono molto felice di pubblicare questa intensa esperienza scritta per noi da una giovane educatrice emiliana, che qui si è firmata ‘Blu’. So che questo tema è molto sensibile e ‘caldo’ di questi tempi, ma proprio per questo penso sia non solo giusto, quanto necessario, ascoltare le storie di chi, certe esperienze le vive. Come la nostra “Blu”

“Sono educatrice. Per vocazione direi, non è stata una scelta. È stato il destino o qualcuno dall’Alto, come preferite. Un’educatrice di frontiera, temo. Sì, perché nelle tranquille cittadine rurali del nord Italia si nasconde di tutto e lo Stato e l’assistenzialismo sono estremamente lontani, probabilmente impegnati nelle periferie caotiche e ingestibili delle grandi città. Diciamo che qui ci arrangiamo, fortunatamente il sistema di sostegno delle associazioni volte al sociale è ancora forte e blocca un tracollo della società, molto vicino.

Esagero? Non siamo mica a Scampia, no? Siamo nella ricca Emilia. Eppure mi sta capitando sotto le mani qualsiasi cosa, bambini senza il materiale per lavorare a scuola, ma con una voglia di imparare infinita, bambini che scompaiono in Pakistan per mesi, per poi tornare ansiosi, persi in un sistema scolastico che fa pressioni che un bambino non dovrebbe affrontare, bambini “nostrani”, di buona famiglia abbandonati, perché mamma e papà devono lavorare e poco importa se la psicologa sospetta uno spettro autistico per quel figlio di cui mi occupo dalle 18 alle 21, quando si addormenterà sfinito…fino ad arrivare a bambini che minacciano i propri educatori con coltelli di plastica perché “papà fa cosi a casa”. No, non siamo a Scampia, ma abbiamo i nostri problemini…

Tornando a me, io sono un animo buono…non ce la faccio per natura a essere cattiva come il mondo vorrebbe, sono l’ultima a pensare male di qualcosa o qualcuno, immaginate quante sofferenze quando puntualmente mi risveglio da questa concezione di mondo perfetto. Ma giuro non ce la faccio, è più forte di me. “Bun e cuion” mi diceva sempre mio nonno, a voi la traduzione del dialetto.

Succede che ad aiutarci nel nostro lavoro abbiamo uno splendido ragazzo africano, rifugiato, mandatoci da una cooperativa che appunto colloca questi esseri umani alla ricerca di una vita migliore, nei posti in cui potrebbero lavorare, per dare al loro soggiorno in Italia una parvenza di normalità, se non un’utilità sociale. Chiamiamolo S., 31 anni, due metri, fisico da modello, nero come la pece. Un’immagine ai confini della realtà vederlo giocare instancabilmente con dei bimbetti di prima elementare, per me l’immagine del fatto che non conta da dove veniamo, ma dove siamo. A quanto pare però questo è nuovamente il mio mondo fatato.

Premessa, ci aiuta anche una ragazza in servizio civile, ecco lei invece non è esattamente l’esempio di una grande lavoratrice, né di una persona con un particolare amore per i bambini…ma d’altronde il servizio civile serve a indirizzare i ragazzi nel mondo del lavoro…ecco, lei deve aver capito che non vuole fare la maestra, ma manco la bidella, nemmeno la gelataia oserei dire, troppi marmocchi…

Arriva S., la ragazza in questione si fa allontanare dal servizio che svolgeva insieme a lui nella pausa tra la mensa e i compiti, adducendo uno stato di sofferenza psicologica…lungi da me pensare che ci fosse sotto altro, eppure i miei colleghi me lo avevano proposto: “Guarda che fa cosi perché non vuole stare con S.” e io ovviamente non ho collegato nulla, l’unica cosa che ho pensato è: “Non ha voglia di impegnarsi più dello stretto necessario”.

Arriviamo a mercoledì. S. mi avvicina e mi dice: “Posso parlarti? Ho fatto qualcosa di sbagliato”. Per l’amor del cielo! Questo ragazzo ci aiuta e basta, non chiede mai nulla, manco di andarsi a prendere un caffè, cosa sta dicendo?!

“Ma perché mi stai chiedendo se hai sbagliato qualcosa? S. davvero stai tranquillo, non c’è nulla che non vada. Cosa succede perché credi di aver fatto qualcosa di sbagliato?”

Ed è qui che S. mi racconta di come la nostra carinissima ragazza di cui sopra lo ignora palesemente, malgrado gli passi accanto, malgrado lui la saluti, addirittura di come quel giorno gli abbia fatto un gesto di insulto.

Ero cosi dispiaciuta.

Arrabbiata.

Schifata.

Nel mio cervello era ben chiaro cosa stesse succedendo. La mia “amica” era una razzista fatta e finita e quello,  avrei dovuto dire a S.

E invece non mi è uscito di bocca. Non ci riuscivo. È talmente brutto per me parlare e accettare che una condizione di questo tipo si sia realmente verificata, che il razzismo esista praticamente, che esiste intorno a me, che sono la persona più integrante del mondo, che non riuscivo nemmeno a dirlo. E poi non volevo ferire S. E allora ho cominciato a girarci intorno come una scema: “Sai lei ci ha dato tanti problemi, sai ci sono persone che fanno fatica ad accettare gli altri, lei ha una mentalità un po’ chiusa…”

Stronzate, lei è razzista. E niente, non sono riuscita a dirlo.  S.ha capito, ha fermato i miei sproloqui con le lacrime agli occhi. Io avrei urlato volentieri, ma ero paralizzata dal voler mantenere comunque un contegno professionale e non spaventare i bambini, la realtà è che tutto questo mi ha segnato e continuo a pensarci.

Forse fa parte del mio processo di crescita, ma come si fa a dire ad una persona che qualcuno lo odia per il semplice fatto di essere nato in una certa parte del mondo? Lo odia per essere lui, se stesso, l’unica persona che può essere? Non c’è rimedio all’essere se stessi. È giusto essere orgogliosi della persona che siamo, ma se qualcuno ti odia perché tu sei tu, cosa puoi fare? Non c’è una soluzione per un vivere civile, perché malgrado io possa ignorare il razzista di turno, il suo odio continuerà a vivere in lui e il mio essere me stesso continuerà a infastidirlo, io sarò sempre vulnerabile.

Qualcosa in me dopo questa esperienza mi ha portato alla conclusione che al razzismo non c’è soluzione, se non partire da un’educazione corretta di menti vergini…ma quelle condizionate da questo cancro lo rimarranno.

La signorina è stata costretta dalla sottoscritta ad un confronto diretto con S. Volete sapere cosa ha risposto? “Spesso mi capita senza accorgermene di guardare male le persone, me lo dicono anche le mie amiche”.

Quindi signori, se volete ancora credere che al mondo non esita il razzismo, la signorina in questione non è razzista, ma è affetta da una grave forma di RBF (acronimo per Resting Bitch Face, o Faccia da stronza a riposo).

Con affetto,  Blu”