A dispetto di quanti pensino relativamente all’inserto di Repubblica, “D” è un settimanale la cui lettura non manca mai di sorprendermi e lo fa ogni volta con approfondimenti su spaccati sociali e politici, di articoli di varia ‘umanità’, di spazi dal mondo, di colore, arte e musica. E in genere non comincio mai a leggere dall’inizio, ma ad interessarmi subito è l’ultima pagina, quella firmata da Umberto Galimberti, uno tra i filosofi contemporanei più apprezzato. Inun numero del novembre scorso mi ha affascinato la risposta ad una lettrice relativamente a chi siamo noi oggi e siccome mi trovo allineata al suo pensiero totalmente vorrei riproporvi qualche pezzo perchè ci farà riflettere e soprattutto in cui ci riconosceremo. Chi più chi meno, purtroppo, è ammalato volente o nolente ci troviamo in quel punto delicato in cui un’era può perdersi totalmente o risorgere. Emblematico il titolo “A che punto è l’umanità?”. Galimberti spiega che “noi occidentali siamo precipitati in una sorta di alienazione che consiste nel fatto che chi lavora, per tutte le ore di lavoro, deve mettere tra parentesi la sua persona (ecco il primo punto eclatante. Quanti di voi lo percepiscono e ne soffrono? n.d.r) perchè sa di essere valutato unicamente per la sua efficienza e la sua produttività. In una parola ‘per quello che fa e non per quello che è

A tutto ciò – continua Galimberti rispondendo alla giovane lettrice – si aggiunge che oggi, chi lavora al nostro fianco, se è più efficiente e produttivo, in caso di crisi diventa un potenziale concorrente. Di conseguenza questo vissuto andiogeno fa sì che nei posti di lavoro non ci sia più quella solidarietà o quel trovarsi, come un tempo, nella stessa sorte, ma vinca un clima di sospettosità che rende falsa la comunicazione e convenzionali i rapporti.  Tutta questa alienazione – scrive Galimberti –sottrae all’uomo la sua umanità”.

Una umanità fatta anche di amore, sofferenza, immaginazione, sogni. E’ per questo che si cerca di sopprimerla, perchè risulta essere “un disturbo dalla razionalità tecnica, perchè può intralciare la buona esecuzione delle procedure che mettono a capo l’unico valore che ha soppiantato tutti gli altri valor, il denaro”. A questo punto Umberto Galimberti riporta l’attenzione su quello che sembra essere l’effetto piuttosto che la causa del problema, la voglia di apparire a tutti i costi e utilizzare i social per soddisfare questa necessità, per riempire un vuoto che la società ha creato. “Allora si capisce – commenta il filosofo – perchè c’è questa gara a mostrarsi e apparire, con conseguente consumo sfrenato di abiti e pratiche corporee che stanno al posto di un’identità perduta. Così come si capisce perchè c’è questo bisogno sfrenato di comunicare sui social, fondamentalmente con nessuno, unicamente per vedere l’effetto che fa, in un mondo di non pensanti, ma compulsivamente bisognosi di dire la propria opinione che è ritenuta tanto più autentica quanto più è dettata dalla pancia”  Conclusione perfetta “Il rimedio? – si chiede Galimberti che poi naturalmente risponde a se stesso – Non c’è. Uno dei miei maestri, Karl Jaspers mi disse ai miei 20 anni “Non credere che l’umanità progredisca sempre. Talvolta può anche regredire e rimanere per molto tempo in questa regressione, se non addirittura estinguersi, nel senso di perdere per sempre i tratti che fino ad ora ci consentivano di riconoscere in un individuo, un uomo“.…..

Spettacolare, vi dicono niente queste parole?